Il frutto proibito

Mi avvicinai alla tecnologia quando ero un bambino. Mio cugino aveva ricevuto un nuovo computer, un Atari, dal suo papà: gli aveva portato quella macchina, futuristica per noi piccoli, direttamente dal Giappone. Collegavamo quella primordiale console ad un vecchio TV bianco e nero, cercavamo il canale per visualizzare la nostra dashboard e poi giocavamo ad una specie di tennis contro quella macchina. Non potevo sapere allora che a distanza di migliaia di miglia, in un posto lontanissimo dalla mia Catania, vi era una terra, battezzata la “Valle del Silicio” dove quelle macchine venivano ideate, progettate e realizzate per fare calcoli rapidamente, mentre io ero costretto a far di conto sui miei bei quaderni a quadri, mettere in colonna, fare la prova del nove e tutte quelle operazioni aritmetiche che un bimbo della scuola elementare  prima e un ragazzino della media poi è costretto ad imparare.

Qualche anno più tardi nella mia famiglia entrò il nostro primo home computer, come si definivano all’epoca i calcolatori pensati per le famiglie. Era un Commodore 64 e cominciai a passare tanto tempo davanti a quel monitor monocromatico a giocare, ovviamente, e ad imparare la programmazione in un linguaggio chiamato Basic. Era il 1984 e onestamente non ero a conoscenza che durante il Superbowl di quell’anno, il 22 gennaio 1984, era stato trasmesso uno spot televisivo, sulle emittenti americane, che avrebbe rivoluzionato proprio quel mondo che io cominciavo ad approcciare battendo le dita su quella tastiera.

Il commercial era di un’azienda informatica che all’epoca neanche sapevo dell’esistenza: Apple Computers Inc.

Il motto finale fu straordinariamente efficace:

On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you’ll see why 1984 won’t be like 1984.

Ero ancora uno studente della scuola media, in una cittadina della provincia etnea, Acireale, e non avevo ancora studiato George Orwell e il suo 1984: qualche anno più tardi nel corso di inglese del mio Liceo, lo lessi durante la preparazione per gli esami di maturità e poi quando cominciai ad appassionarmi al mondo della tecnologia capii il perché di quel motto e della novità che Apple introdusse nel 1984.

Dovetti aspettare una decina di anni prima di avere il mio primo personal computer a casa mia, stavolta principalmente per studiare o almeno così devo affermare adesso che ho la responsabilità di una bimba (ma il ricordo più piacevole di quella macchina fu l’immenso gioco avventura di George LucasIndiana Jones e il destino di Atlantide” che tante notti a me, mia sorella e la nostra amica Virginia ha allietato)! Acquistai quel PC in via Verona a Catania, dopo uno scouting tecnologico che purtroppo per me aveva come limite il budget assegnato da mio padre per quell’acquisto. Se avessimo potuto procedere a una sorta di gara per l’offerta economicamente più vantaggiosa probabilmente non avrei scelto quello strano PC assemblato.

Qualche metro più giù, nei pressi di Largo Rosolino Pilo, via era un negozio che aveva nella sua insegna una mela morsicata, colorata,

simbolo di quell’azienda che produceva i computer più costosi ma anche i migliori presenti sul mercato, i Macintosh. Le macchine di Steve Jobs non erano nelle possibilità economiche della mia famiglia e quindi divenni – mio malgrado – un utente dei PC assemblati, come si diceva all’epoca o meglio dei PC IBM compatibili, schiavo di quei sistemi operativi windows di un altro giovane e geniale imprenditore americano, Bill Gates.

Cominciò così la mia vita informatica a combattere con CTRL-ALT-CANC per riavviare il computer in blocco periodico, i continui antivirus per evitare anche il solo terrore del contagio, le reinstallazioni periodiche e il commercio di programmi piratati altrimenti troppo costosi per comprarli.

Dopo quella prima macchina che aveva il sistema operativo Windows 3.1 ne comprai un’altra nel 1996 all’epoca della mia tesi di laurea e solo dopo dieci anni un notebook personale, sempre con il software di Bill Gates a girare sopra. Nel frattempo avendo cambiato tre aziende avevo avuto modo di lavorare con tre o quattro notebook e durante il periodo di mia permanenza in Nortel Networks avevo apprezzato le workstation Unix per la progettazione della rete radiomobile di Blu, l’innovativo operatore GSM che morì nel 2001, dopo pochi anni dalla nascita.

Mi ero ripromesso negli anni che prima o poi avrei avuto un Mac. Cosa che poi avvenne soltanto nel 2007, con l’avvento del più evoluto sistema operativo che avevo visto fino ad allora: Mac OS X 10.5 Leopard. La molla che mi convinse fu una piccola applicazione, Time Machine, che ha risolto almeno il 95% dei miei grattacapi informatici, costituito da una parola magica che spesso ripetiamo e non mettiamo mai in pratica: il back-up. Quando Leopard è stato lanciato andai con Silvia, mia moglie, all’Apple Store del centro commerciale Roma Est: la facilità d’uso della macchina e la straordinaria capacità di fare backup automatico, attaccando semplicemente un hard disk esterno al sistema, fu la goccia che fece traboccare il mio vaso di bile, ormai colpo per i sempre più numerosi problemi che riscontravo con i sistemi windows. Inoltre i Mac erano dei computer bellissimi da vedere, veri capolavori di design industriale e oggetti di culto.

Acquistai un iMac da ventiquattro pollici, sull’Apple Store on line, altra geniale invenzione, questi bellissimi negozi, che ha rivoluzionato il mercato retail dell’informatica, una sorta di vera cattedrale per un culto ormai diffuso nel mondo.

Se qualcuno mi avesse detto, venti anni fa, che un giorno a casa avrei avuto la tecnologia di una macchina UNIX, la sua robustezza e la sua potenza di calcolo mi sarei messo a ridere.

In verità il mio primo contatto quotidiano con un prodotto della mela fu con il piccolissimo iPod shuffle, che regalarono a mia moglie quando mi invitò a sottoscrivere un conto corrente bancario con la sua banca. Arrivò a casa questo piccolissimo oggetto, con una scatolina elegantissima e con una capacità, per l’epoca, di ospitare un migliaio di canzoni. Qualche anno dopo quel iPod suona ogni notte la “musica della nanna” per la mia piccola Elisa e a casa guardiamo e ascoltiamo la nostra collezione di film, fotografie e musica attraverso un altro oggetto, mezzo flop nella sua prima edizione ma meraviglioso nella sua seconda, che è l’Apple TV. Nel frattempo ho preso un iPhone 3GS e il mio consumo digitale di dati e di informazione è completamente inserito da tempo in una nuvola, aspettando quel icloud che l’azienda di Steve lancerà la prossima settimana.

Mia moglie ha il suo account personale su iMac e fra non molto arriverà anche un iPad per completare il cerchio della vita di questo frutto proibito: un frutto che quando lo cominci a mordicchiare non riesci più a farne a meno.

Oggi Steve non c’è più: se ne è andato per sempre ieri dopo una lunga malattia. Tutti i giornali, blog e siti di informazione riporteranno  il famosissimo discorso di Stanford del quale anche su questo blog ne parlai qualche mese fa.

Federico Rampini su Repubblica parla dell’orgoglio di una scritta che possiamo leggere su ogni device Apple che acquistiamo “Designed by Apple in California“, l’orgoglio che in un’epoca di globalizzazione il know-how dell’ingegneria di prodotto sia rimasto lì nella Silicon Valley.  Vorrei quindi ricordare Steve con un altro video, quello in cui presenta alla città di Cupertino il nuovo progetto per il campus di Apple:

Noi mela-dipendenti, malati del gusto di questo frutto proibito, oggi perdiamo un guru, un profeta, un esempio di cosa significhi fare imprenditoria e realizzare prodotti che aprano la mente e i mercati. Ha detto bene il Presidente Obama nell’affermare che Steve Jobs ha aperto il mondo di internet a tutti. Ma quello che mi ha colpito di più, in un’era in cui in Italia si sta smarrendo l’orgoglio del Made in Italy e anche la più grande industria del nostro Paese, la Fiat, pensa di portare altrove la sua testa pensante, Steve Jobs, forte delle condizioni ambientali, politiche e visionarie della Silicon Valley, mantiene il proprio quartier generale nella propria città e ne potenzia ulteriormente la presenza. Non scappa che so in Nevada o in Delaware dove le tasse sull’impresa sono quasi nulle. Rimane lì, a Cupertino, a pagare le tasse nella sua città e nel suo Stato, la California.

Allora ciao Steve, buon viaggio: che il tuo esempio sia sempre una guida per chi è tanto folle da “pensare di cambiare il mondo“, perché soltanto i pazzi, coloro che si mantengono foolish, i pirati di questo strano mondo chiamato progresso, alla fine questo pianeta lo cambiano davvero.

Per tutti noi che ci sentiamo un po’ più soli stamane, rimane quel tuo incoraggiamento di Stanford: Stay Hungry, Stay Foolish.

R.I.P.